Resistenza a Pubblico Ufficiale – art. 337 c.p. – Quando Non si Configura?
Resistenza a pubblico ufficiale – Quando si configura il reato?
Massimo rispetto nei confronti delle forze dell’ordine o ancor più in generale verso i pubblici ufficiali in servizio. Questo è il principio del vivere sociale insegnato fin da piccoli ma che naturalmente trova anche una tutela giuridico legislativa oltre che giurisprudenziale.
In altre parole, vi è l’obbligo del rispetto della funzione pubblica che si traduce in un obbligo sancito dall’art. 337 del codice penale.
La norma infatti, rubrica sotto il titolo “Resistenza a pubblico ufficiale”, prevede e sancisce che “Chiunque usa violenza o minaccia per opporsi a un pubblico ufficiale o ad un incaricato di un pubblico servizio, mentre compie un atto di ufficio o di servizio, o a coloro che, richiesti, gli prestano assistenza, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni”.
Una norma che ha avuto diverse e specifiche interpretazioni nel corso delle varie vicende che si sono susseguite.
Di certo di recente è stato affermato che integra il delitto di resistenza a pubblico ufficiale di cui all’art. 337 del codice penale, qualsiasi condotta attiva od omissiva che si traduca in un atteggiamento volto ad impedire, intralciare o compromettere, anche solo parzialmente e temporaneamente, la regolarità del compimento dell’atto di ufficio o di servizio da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio (Cass. pen. 23.10.2018, n. 51364).
Una specificazione da parte della Suprema Corte che estende il concetto di resistenza, che a rigore letterale indicherebbe un atteggiamento esclusivamente attivo, per permettere di ricomprendere nell’ambito di applicazione della norma, ogni tipologia di atteggiamento che sia contrario al rispetto della funzione pubblica e quindi che possa in ogni modo non apparire conforme con l’esercizio del ruolo e del servizio che il pubblico ufficiale riveste in quello specifico momento.
Nel caso di specie posto all’attenzione della Cassazione era un detenuto che, presso la casa circondariale “di residenza” ed in degenza per motivi di salute presso la struttura sanitaria cittadina, prendeva a pugni sul volto l’assistente capo di polizia penitenziaria mentre era intento a calmare il detenuto stesso nell’atto in cui inveiva nei confronti di una infermiera del nosocomio che gli aveva negato la possibilità di fumare una sigaretta.
Il caso arriva davanti alla Cassazione dopo il ricorso presentato dal Procuratore Generale avverso la sentenza di assoluzione dei gradi precedenti, il quale presentava al Collegio le ragioni per cui ritenere che il Tribunale era incorso nella sua decisione in un errore di legge ritenendo che l’intervento dell’assistente di polizia giudiziaria aggredito fosse in realtà stato determinato da ragioni personali, estranee ai doveri di ufficio, là dove invece il servizio di piantonamento dallo stesso ufficiale reso presso il nosocomio in cui era ricoverato il detenuto sarebbe pienamente rientrato negli obblighi di ufficio, integrando l’ascritto reato.
Sulla scorta di tali argomentazioni e argomentando che “le ragioni estemporanee che hanno determinato l’intervento del pubblico ufficiale e l’impegno da quest’ultimo dispiegato per sedare sul nascere il contrasto insorto tra il detenuto ed una infermiera sono irrilevanti e non consentono di relegare l’attività del pubblico ufficiale, impegnato nell’indicato servizio, a finalità destinate a porsi al di fuori del servizio medesimo”, il Supremo Collegio annullava la pronuncia della impugnata con rinvio stabilendo il principio già scritto sopra.
Un dato importante che configura come non sia rilevante la motivazione che spinge il pubblico ufficiale ad intervenire, qualora sia nell’esercizio della sua funzione e sia un comportamento che in un qualunque modo possa esserne connesso, al fine di configurare la fattispecie di cui all’art. 337 del codice penale.
Si tratta di una questione molto delicata e su cui ancora si dibatte molto per capire la reale portata della norma.
Cosa configura la resistenza al pubblico ufficiale?
Ad esempio da rilevare è che anche una minaccia può costituire violenza a pubblico ufficiale.
E’ stato ritenuto, infatti, che per integrare la minaccia ad un pubblico ufficiale, in particolare, non è necessaria una minaccia diretta o personale, essendo invece sufficiente l’uso di una qualsiasi coazione, anche morale, o anche di una minaccia indiretta, purché sussista la idoneità a coartare la libertà di azione del pubblico ufficiale e tale minaccia può essere anche costituita da una condotta autolesionistica dell’agente, quando la stessa sia finalizzata ad impedire o contrastare il compimento di un atto dell’ufficio ad opera del pubblico ufficiale (Cass. pen. 30.03.2017, n. 26869).
Nel caso di specie il soggetto aveva avuto un atteggiamento positivo tale da non potersi ascrivere e qualificare come condotta di mera resistenza passiva, non essendosi limitato a disobbedire alle richieste dei carabinieri, barricandosi all’interno dell’autovettura.
La fattispecie criminosa era stata integrata infatti anche da contegni o propositi autolesivi del soggetto agente, che, proprio per l’intrinseca ingiustizia del male così minacciato, si era alla fine e nei confronti del pubblico ufficiale, rivelata suscettibile di intralciare l’esercizio della pubblica funzione, cui quei propositi autolesivi erano stati diretti, indirizzati e finalizzati, in modo specifico e strumentale.
A nulla tra l’altro rileverebbe la circostanza per cui la minaccia si risolvesse in concreto come irrealizzabile (nel caso di specie l’imputato aveva infatti minacciato di darsi fuoco con la benzina ma in realtà era stato evidenziata l’assenza di benzina nella bottiglia posseduta dall’imputato).
Quello che conta per la configurazione del reato è l’idoneità della minaccia posta in essere per opporsi al pubblico ufficiale che deve necessariamente essere valutata dallo stesso con un giudizio ex ante, tenendo conto delle circostanze oggettive e soggettive del fatto.
Pertanto appare ovvio e consequenziale che l’impossibilità di realizzare il male minacciato, a meno che non tolga al fatto qualsiasi parvenza di serietà, non porterà ad escludere la fattispecie di reato.
La stessa deve infatti potersi riferire alla potenzialità costrittiva del male ingiusto prospettato. Il pubblico ufficiale non può correre il rischio di una valutazione errata e deve attenersi quindi a ciò che possa in qualche modo essere dato per vero senza verifica.
Resistenza al pubblico ufficiale: quando è esclusa?
Da tale assunto, però, non bisogna arrivare alla convinzione successiva e sbagliata per cui credere che una qualunque forma di ostacolo possa integrare il reato anzidetto.
È stato infatti stabilito che non sussiste l’ipotesi di resistenza a pubblico ufficiale allorché vi sia un moderato uso della forza, risolventesi in una resistenza passiva, che impedisce di ravvisare quell’effettiva violenza oppositiva che sola può integrare il contestato delitto di resistenza (Cass. pen. 22.01.2019, n. 5209).
Il delitto di resistenza ad un pubblico ufficiale, infatti, è integrato anche dalla violenza cosiddetta impropria, che, pur non aggredendo direttamente il pubblico ufficiale, si riverbera negativamente nell’esplicazione della sua funzione, impedendola o ostacolandola.
Quindi è chiaro che solamente la resistenza passiva, come mancanza di qualunque forma di violenza o di minaccia, rimane al di fuori della previsione legislativa.