Amministratore di Condominio: Quando Risponde di Appropriazione Indebita?
L’amministratore risponderà del reato di appropriazione anche se gli ammanchi di cassa sono irrisori
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Indebita appropriazione da parte dell’amministratore di condominio
La Corte di Cassazione con la sentenza n. 36022 del 5 ottobre 2011 ha statuito il seguente principio di diritto “ il reato di appropriazione indebita, da parte dell’amministratore nella gestione contabile di un condominio, si configura – anche in relazione ad un esiguo ammanco – qualora l’amministratore non sia in grado di provare che tale minima differenza di cassa sia riconducibile a cause diverse dalla finalità di indebita appropriazione e non da lui volute consapevolmente.”
I giudici di legittimità, hanno dichiarato l’annullamento della sentenza impugnata e hanno rinviato alla Corte di Appello per un nuovo giudizio poiché il provvedimento di assoluzione emesso nei confronti dell’imputato era stato giustificato semplicemente dalla scarsa consistenza degli ammanchi.
Tra l’altro, le argomentazioni della Corte territoriale – alla luce delle quali l’imputato era stato prosciolto dalle accuse – si fondavano esclusivamente sui dati emersi dalla perizia disposta dalla stessa Corte di Appello, nonostante fossero in difformità con le risultanze emerse dalle precedenti perizie rispettivamente di parte e quella disposta dal Tribunale.
Da quest’ultima perizia sarebbe emerso che vi era una differenza di cassa calcolato in lire di 1018,754 e, quindi, un ammanco non allarmante a fronte delle esose cifre indicate nelle relazioni dei periti precedentemente nominati ( di circa venti milioni di lire).
Nonostante la mancata concordanza tra gli esiti peritali alcun accertamento è stato eseguito per la comparazione dei risultati emersi al fine di una esatta ricostruzione dei fatti e della esatta individuazione degli ammanchi.
Una vicenda, quindi, dai contorni ambigui.
Su questo caso, vi era stato già un precedente giudizio della Suprema Corte conclusosi anch’esso con annullamento e rinvio per altro giudizio alla Corte di Appello.
Ma anche la nuova sentenza emessa dai giudici di merito presentava – ad avviso del Procuratore della Repubblica e della parte civile costituita in giudizio – ancora delle criticità per le quali si rendevano oltremodo necessario un nuovo intervento della Suprema Corte sicchè veniva proposto ricorso in Cassazione da entrambe le parti.
Ed anche questa volta, gli ermellini, annullavano la impugnata sentenza ritenendo che il provvedimento emessa dalla Corte di Appello presentasse vizi sotto il profilo legislativo e per quanto riguarda la motivazione ritenendola illogica e contraddittoria.
La ricostruzione dei fatti da parte dei giudici di merito non era affatto lineare tenuto conto che persistevano dubbi sulla esatti importi che mancavano dalle casse e sulle eventuali cause di questi ammanchi.
Individuare la causa degli ammanchi
La Corte di Piazza Cavour, ha evidenziato che non è rilevante il quantum degli ammanchi perché anche una minima differenza di cassa potrebbe far configurare, a carico dell’amministratore, il reato di appropriazione indebita.
L’attenzione deve esser focalizzata sulle ragioni dell’ammanco.
Bisogna verificare se l’ammanco sia da addebitare alla volontà dell’amministratore di appropriarsi di danaro di cui era in possesso in ragione della sue funzioni ma di cui non poteva disporre ovvero riconducibili ad altre cause che esulano dalla sua volontà.
Laddove sia provato che la differenza di cassa sia frutto di una condotta cosciente e consapevole dell’amministratore si possono ritenere serenamente sussistenti i requisiti oggettivi e soggettivi richiesti dalla norma incriminatrice ai fini della configurabilità del delitto in questione, anche nel caso in cui gli ammanchi non siano estremamente consistenti.
L’aspetto rilevante – oltre alla sussistenza della condotta oggettiva consistente in effettivi ammanchi dalla cassa – è l’elemento psicologico alla base della condotta dell’amministratore e solo in presenza di una volontà cosciente e dolosa di appropriarsi della cosa o del danaro di cui è in possesso che la condotta ricade nell’ambito di natura penale.
Di tal che non saranno le eventuali cifre esigue a far sì che l’amministratore sia sollevato da qualsivoglia responsabilità penale per il suo operato.
La pena prevista per il reato di appropriazione
L’appropriazione consiste in una interversio possessionis ovverosia colui che è in possesso della cosa o del danaro inizia a comportarsi come se ne fosse il proprietario, a disporne liberamente come se sul bene vantasse un diritto assoluto ed esclusivo.
Cambia, dunque, la predisposizione del possessore verso la cosa di cui è in possesso.
L’art. 646 c.p. stabilisce che chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, si appropria il danaro o la cosa mobile altrui di cui abbia, a qualsiasi titolo, il possesso è punito – a querela della persona offesa – con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino a mille trenta due euro.
Il trattamento sanzionatorio è più gravoso in presenza della circostanza aggravante di cui al secondo comma ossia allorquando il titolo del possesso è il deposito.
La procedibilità, quindi, è a querela salvo che ricorrono la suddetta circostanza o una delle circostanze aggravanti indicate nel numero 11 dell’art. 61 c.p.
Per quanto riguarda il profitto cui è finalizzata la condotta appropriativa, secondo la giurisprudenza maggiormente accreditata, deve essere inteso come vantaggio economicamente valutabile. Sebbene non manca orientamento di segno opposto che considera profitto anche quello di natura non patrimoniale.
Il proprietario di un oggetto non potrà essere accusato di appropriazione
Un dato certo, invece, è che senza ombra di dubbio l’autore del reato di appropriazione indebita non potrà essere certamente colui che è titolare di un diritto di proprietà sul bene di cui è in possesso.
Tale esclusione tra i soggetti attivi della fattispecie criminosa si desume dal contenuto della norma incriminatrice che prevede espressamente l’altrui della cosa.
La condotta, per la sua rilevanza penale ai sensi dell’art. 646 c.p., deve essere realizzata da colui che ha il possesso della cosa mobile, a prescindere dal titolo, e con l’intenzione di procurare un profitto per se stesso ovvero per altrui. Il comportamento doloso dell’agente è finalizzato al raggiungimento di questo preciso scopo: l’ingiusto profitto.
E’ pertanto, laddove il soggetto abbia il possesso dell’oggetto tutelato essendone il legittimo proprietario viene meno il requisito dell’altruità della cosa mobile e, per effetto, non potrà ritenersi integrato il delitto di cui all’art. 646 c.p.
L’appropriazione indebita e il furto: condotte apparentemente simili
Il reato di appropriazione indebita presenta delle analogie con il delitto di furto previsto e disciplinato dall’art. 625 c.p. in quanto in entrambi i casi si ha la sottrazione della cosa al legittimo proprietario.
Ma, nela fattispecie criminosa di cui all’art. 625 c.p., si ha l’impossessamento della cosa altrui – diversamente – dall’appropriazione in cui l’autore del reato è già il possesso della cosa altrui e ne fa un uso illecito.
La differenza sembra apparentemente sottile ma è sostanziale perché il possesso è il presupposto del delitto di indebita appropriazione e non è affatto presente nella condotta delittuosa che delinea l’ipotesi del furto.
Il reato di cui all’art. 646 rientra nel novero dei delitto contro il patrimonio ossia una serie di ipotesi delittuosa previste nel codice vigente al fine d tutelare la integrità patrimoniale del comune cittadino e non solo. Per alcune fattispecie di delitti il soggetto passivo può essere anche lo Stato.
Tale esigenze di tutela è ancor più sentita, dal nostro legislatore, nel caso in cui i beni patrimoniali siano in possesso di un soggetto diverso dal proprietario in quanto – avendone già la disponibilità – se ne può indebitamente appropiare. Da qui la previsione nel sistema di specifiche fattispecie a salvaguardia del patrimonio altrui realizzabile proprio dal possessore.
La Suprema Corte, quindi, con la menzionata autorevole pronuncia ha posto luce su alcuni aspetti non valutati o, quantomeno non valutati correttamente, dalla Corte di Appello e ha, altresì, chiarito che non è affatto consentito all’amministratore di appropriarsi volutamente delle somme di danaro che gli sono state affidate dai condomini nemmeno se la cifra è trascurabile.
L’assoluzione dell’autore della presunta condotta appriopiativa può essere giustificata solo nel caso in cui gli ammanchi – sebbene non eccessivi – siano addebitabili a ragioni che esulano dalla volontà delittuosa da colui a cui i condomini hanno affidato l’incarico della gestione condominiale.