Insolvenza fraudolenta: quando l’inadempimento civile configura un reato?
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Insolvenza fraudolenta
Dissimulare il proprio stato d’insolvenza è reato.
La natura civile o penale dell’inadempimento
Il mancato adempimento da parte del soggetto obbligato non sempre assume i contorni di un’attività penalmente perseguibile atteso che – laddove la condotta non sia sorretta da una volontà fraudolenta – essa verrà considerata come mero inadempimento di natura civilistica.
Se, invece, l’obbligazione viene assunta con intento fraudolento ossia con l’intenzione di non adempiere tale comportamento assume i contorni dell’illecito penale con la conseguenza che il soggetto inadempiente potrà essere coinvolto in una vicenda giudiziaria.
Sebbene, quindi, è chiaro quando si resta sul piano civilistico e quando si sfocia nell’ambito penalistico non altrettanto cristallina è la qualificazione giuridica della condotta poiché la frode è un elemento che caratterizza sia il delitto della truffa sia l’ipotesi criminosa della insolvenza fraudolenta.
Non di rado, la Suprema Corte viene interpellata al fine di dirimere eventuali dubbi sull’inquadramento giuridico della condotta contestata e non sempre i giudici di legittimità condividono il percorso ermeneutico dei precedenti organi giudicanti.
La dissimulazione dello stato di insolvenza configura il delitto di insolvenza fraudolenta
La Corte di Piazza Cavour, con una sentenza del 4 luglio 2017 – la numero 32055 – ha statuito che “ la condotta di chi, dissimulando il proprio stato d’insolvenza, ottenga un prestito da terzi il quale confida nella restituzione in virtù di pregressi regolari adempimenti – che non facciano parte di un preordinato piano truffaldino – configura l’ipotesi delittuosa di cui all’art. 641 c.p. “
Nel caso di specie, la Corte riqualifica il fatto come insolvenza fraudolenta – escludendo la sussistenza di una attività truffaldina formata da artifizi e raggiri posti in essere al fine di indurre la vittima in errore – e, per effetto, restituisce gli atti per una rideterminazione della pena.
La Corte di Appello, aveva confermato la sentenza di condanna per truffa aggravata emessa dal Tribunale locale ritenendo che tra l’imputato e la parte offesa vi era un rapporto di amicizia e stima poiché il predetto aveva sempre provveduto al pagamento delle somme di danaro ricevute – anni addietro – con annessi interessi.
E, verosimilmente, la puntuale restituzione del danaro aveva generato nella vittima l’erroneo convincimento che l’imputato, anche questa volta, avrebbe rispettato i patti e corrisposto quanto dovuto alla parte lesa.
La Suprema Corte, invece, ritiene che la condotta così come contestata integri una ipotesi di insolvenza fraudolenta in quanto l’inganno era consistito solo nella dissimulazione dello stato di insolvenza in cui versava in violazione delle norme comportamentali e, per effetto del quale, la parte offesa confidando sul fatto che l’imputato aveva sempre adempiuto all’obbligazione di restituzione acconsentì di erogargli una ingente somma di danaro” .
Truffa e insolvenza fraudolenta: Ipotesi di reato apparentemente simili
La fisionomia del delitto di cui all’art. 640 c.p. è alquanto analoga a quella del reato di insolvenza fraudolenta ma il corrispondente trattamento sanzionatorio non è per niente analogo.
Nella fattispecie della truffa, il soggetto agente pone in essere una serie di artifizi e raggiri al fine di simulare false circostanze idonee ad indurre altri in errore per trarne un ingiusto profitto per se stesso o per altri.
La frode nell’nsolvenza fraudolenta, invece, è caratterizzata da una dissimulazione dell’effettivo stato di insolvenza, contraendo un’obbligazione con l’intento di non poter adempiere all’obbligo assunto.
Una differenza, dunque, sottile ma rilevante sul piano della risposta sanzionatoria.
Si rischia la reclusione fino a cinque anni per il reato di truffa aggravata
Per la più grave ipotesi delittuosa ex art. 640 c.p. il nostro legislatore ha previsto una pena dai sei mesi ai tre anni e la multa da cinquantuno euro ai milletrentadue euro.
E, in presenza di circostanze aggravanti – dettagliatamente descritte nella norma incriminatrice – il trattamento sanzionatorio diventa più gravoso prevedendo la sanzione della reclusione da uno a cinque anni, oltre la sanzione pecuniaria.
A fronte della pena della reclusione fino a due anni o con la multa fino a cinquecento euro prevista per il delitto di cui all’art. 641 c.p. ossia per la insolvenza fraudolenta.
E’ chiaro, quindi, che una errata qualificazione della fattispecie giuridica rischia di esporre il soggetto agente ad una condanna molto più elevata rispetto a quella che gli verrebbe comminata nel caso in cui sia ritenuta sussistente la insolvenza fraudolenta piuttosto che la truffa.
Così, come nel caso sottoposto alla attenzione della Suprema Corte, l’attività posta in essere dall’imputato era stata inquadrata nella condotta prevista e tutelata dall’art. 640 c.p. nella forma aggravata sulla base di un erroneo convincimento che tale comportamento delineasse una attività truffaldina ai danni della vittima.
Questa è stata la censura principale avverso l’impugnata sentenza. L’imputato, mediante il suo difensore, aveva evidenziato delle criticità che, a suo avviso, presentava il provvedimento di condanna emesso nei suoi confronti.
In particolare, il prevenuto lamentava la violazione della legge in relazione all’art. 640 c.p. oltre che all’art. 163 c.p. per il mancato riconoscimento del beneficio della sospensione condizionale della pena.
La fondamentale funzione della Corte di Cassazione
L’intervento dei giudici di legittimità è stato in questo caso, più che mai, giusto e doveroso in quanto – sebbene sarà emessa, comunque, una sentenza di condanna nei confronti dell’imputato, atteso che la restituzione degli atti alla Corte di Appello veniva disposta per la rideterminazione della pena – la condanna sarà, in ogni caso, più giusta ed equa rispetto al fatto commesso.
E’ naturale che la vittima di un reato debba essere tutelata ma, al contempo, anche l’imputato merita di essere sottoposto ad un processo che sia giusto nel pieno rispetto del fondamentale principio della legalità.
Di tal che, al fine di garantire la corretta applicazione della legge la vexata questio della esatta qualificazione giuridica della fattispecie delittuosa da applicare al caso concreto viene spesso riproposta al vaglio della Suprema Corte, esattamente come nel caso de quo.
E non è sfuggito, infatti, alla attenzione della Corte di Cassazione la menzionata vicenda giudiziaria in cui le pregresse richieste di prestito avanzate molti anni prima ( nello specifico nel 2004) rispetto alla commissione del reato avvenuto nel 2009/10 erano state valutate dal Primo Giudice come subdoli escamotage a cui l’imputato aveva fatto ricorso per indurre la vittima ad elargire la esosa somma che, di fatto, non è mai stata restituita.
L’ultimo prestito, quindi, ad avviso del Giudicante, era parte di un progetto criminoso ideato – dall’imputato – già dalla prima richiesta di danaro e proseguito nel corso degli anni per rafforzare nella parte offesa il convincimento che avrebbe recuperato fino all’ultimo centesimo come era avvenuto in passato.
Senza considera la consapevolezza del prevenuto nella realizzazione della attività delittuosa poiché, non molto tempo dopo, veniva arrestato per il reato di frode fiscale per cui aveva contratto l’obbligazione pecuniaria pur sapendo che non avrebbe potuto adempiere.
Questo, tuttavia, è stato il percorso interpretativo del giudice di prime cure che ha trovato conferma nel secondo grado del giudizio ma che è stato sconfessato dai giudici di legittimità.