Diritto Penale

Diffamazione a Mezzo Social

La diffamazione è un reato previsto dall’art. 595 del codice penale che tutela la lesione della reputazione di un individuo in conseguenza di informazioni false o ingiuriose diffuse attraverso la parola scritta o parlata.

In particolare si usa l’espressione “diffamazione a mezzo social” quando il contenuto diffamatorio – sotto forma di testo, immagini, video o altri materiali digitali – viene diffuso tramite piattaforme online come Facebook, Instagram, X e similari.

Diffamazione a Mezzo Social

In questi casi si configura la cosiddetta “diffamazione aggravata” sanzionata dal terzo comma dell’art. 595 c.p., ovvero quella della diffamazione commessa con il mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, che prevede una pena da sei mesi a tre anni di reclusione una multa non inferiore a cinquecento sedici euro.

Trattasi di una fattispecie più grave in quanto, secondo la Corte di Cassazione, tale condotta è potenzialmente in grado di raggiungere un numero indeterminato di persone (sentenza n. 50 del 2017).

Oltre ad essere un illecito penale, la condotta in oggetto costituisce pure un illecito civile, da cui ne consegue la richiesta di compensazione per i danni subiti.

diffamazione a mezzo social

Quando è punibile la diffamazione via social?

La diffamazione via social è punibile quando integra determinati criteri generali:

  1. Affermazioni menzognere: se vere risulterebbe infatti difficile dimostrare il reato di diffamazione;
  2. Danneggiamento della reputazione della vittima, sia personale che professionale, o finanche finanziaria; ai fini della configurabilità del reato di diffamazione la vittima non deve necessariamente essere identificata per nome e cognome, essendo sufficiente che essa risulti individuabile (anche per esclusione ed in via deduttiva) all’interno di una categoria ristretta di persone. Basterà che i destinatari dei messaggi denigratori siano a conoscenza di particolari della vita privata o professionale della vittima (Cass. Pen. Sez. V, sentenza n. 30369 del 10/04/2012).
  3. Diffusione a terzi delle suddette informazioni false; anche postare un commento infamante su un qualunque social network (nel caso in esame la bacheca di Facebook) può configurare il reato di diffamazione, attesa l’idoneità del mezzo adoperato a determinare la circolazione del commento nell’ambito di un insieme di persone numericamente apprezzabile (Cass. Pen., sez. V, sentenza n. 8328 del 13/07/2015).

Ci sono poi, elementi di maggiorazione della pena:

  1. Ripetitività, quando l’episodio non è stato un caso isolato;
  2. Intenzionalità, se la diffamazione ha avuto lo scopo preciso di danneggiare la reputazione della persona offesa;
  3. Contenuto fortemente offensivo;
  4. Incitamento all’odio, alla discriminazione o al pregiudizio contro un singolo o gruppi di persone;
  5. Cyberbullismo: serie di azioni aggressive reiterate nel tempo per recare danno alla sfera emotiva e sociale di un individuo;
  6. Manipolazione di immagini o video;
  7. Coinvolgimento di minori o minori destinatari delle informazioni false. A tal riguardo, la Suprema corte ha annullato la sentenza di assoluzione emessa nei confronti dell’imputato, il quale, in una chat di gruppo WhatsApp, aveva utilizzato il termine “animale” per apostrofare in modo dispregiativo il bambino che aveva procurato una ferita al volto della figlia. I giudici hanno convenuto che paragonare un bambino ad un “animale” assume indubbiamente portata offensiva e diffamatoria (sentenza n. 34145 del 2019).

Non bisogna però dimenticare il fatto che alcune dichiarazioni non possono rientrare nella casistica dell’art. 595, 3° comma, poiché protette da privilegi legali, ad esempio quelle rese in tribunale o nell’ambito di procedimenti governativi.

Cosa fare nel caso di diffamazione via social

Se si diventa vittime di diffamazione via social, ci sono diverse strade che è possibile percorrere.

Innanzitutto è opportuno raccogliere e conservare le prove dell’illecito, quali screenshot e riferimenti all’account del diffamante, che serviranno in sede legale o se si vuole semplicemente segnalare il caso alla piattaforma.

Quest’ultima può provvedere immediatamente alla cancellazione dei contenuti indicati o alla sospensione dell’account della persona diffamante, a seconda delle regole vigenti.

Al riguardo, la Cassazione ha stabilito che “il blogger può rispondere dei contenuti denigratori pubblicati sul suo diario da terzi quando, presa cognizione della lesività di tali contenuti, li mantenga consapevolmente” (sentenza n. 12546 dell’ 08/11/2018).

Quando la diffamazione fa capo a specifici utenti si può bloccarli o limitare per loro la visibilità del proprio profilo, o addirittura impostare un livello di privacy più alto per impedirvi l’accesso indiscriminato.

Si potrebbe anche scegliere di rispondere alle affermazioni false, ma non sempre chi c’è dall’altra parte è disposto ad ascoltare e a rettificare le sue parole.

In ultimo, quando la situazione appare abbastanza seria, è opportuno prendere in considerazione l’idea di rivolgersi ad un avvocato.

Quali azioni legali è possibile intraprendere

La diffamazione è un reato punibile a querela di parte, da proporre entro tre mesi dal fatto (art. 120 c.p.) altrimenti non sarà più procedibile.

A seguito dell’azione penale da parte del Pubblico Ministero, la persona offesa può anche agire in sede civile per ottenere un risarcimento dei danni, patrimoniali e non.

Per i danni patrimoniali bisogna presentare in giudizio una certificazione del commercialista della vittima che attesti la consistente riduzione dei redditi derivata dall’attacco diffamatorio, ed eventuale documentazione e richieste di testimonianze volte a dimostrare perdite di occasioni lavorative.

Per i danni non patrimoniali, pure se si tratta di lesione di diritti inviolabili della persona, devono essere allegati e provati da chi ne chiede il risarcimento, ad esempio attraverso una perizia psichiatrica che accerti tali danni o testimonianze dirette.

La quantificazione del danno deve rispondere a specifici parametri di riferimento, come la diffusione dello scritto, la rilevanza dell’offesa e la posizione sociale della vittima.

In alcuni casi meno gravi si può risolvere la controversia attraverso la mediazione o la negoziazione, evitando un procedimento giudiziario.

Differenza tra diffamazione via social e diritto di critica

L’art. 21 della Costituzione riconosce e tutela la libertà di espressione e manifestazione del pensiero, dove rientrano anche il diritto di critica e di cronaca.

Col primo si esprime una valutazione soggettiva di un dato evento o circostanza, col secondo si fornisce un’informazione obiettiva.

Tali osservazioni devono però rispondere a tre importanti requisiti per esulare dal reato di diffamazione:

  1. Veridicità del fatto in oggetto;
  2. Continenza dell’espressione: è indispensabile che l’opinione sia esposta in forma corretta, strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione, e non in modo da sfociare in un’aggressione gratuita e immotivata della reputazione altrui (Cass. Pen., sentenza n. 17243 del 2020);
  3. Pertinenza o interesse sociale del fatto.

La V Sezione Penale della Cassazione ha infatti assolto dall’accusa di diffamazione un soggetto che, partecipando ad una discussione su Facebook, pubblicava un commento di per sé privo di portata denigratoria ma considerato dai giudici d’appello offensivo nel contesto in cui era immesso.

In particolare, secondo i giudici, il commento incriminato avrebbe mutuato la sua carica denigratoria dall’implicita adesione alla sostanza di post precedenti di altri utenti realmente diffamatori, quindi l’imputato è stato condannato agli effetti civili del reato di diffamazione, ribaltando la sentenza assolutoria di primo grado.

Gli Ermellini hanno sancito invece  che “era nel suo diritto manifestare un’opinione apertamente ostile nei confronti del M., ma [..] contrariamente agli altri partecipanti alla discussione, egli lo ha esercitato correttamente, senza ricorrere alle espressioni offensive utilizzate da altri, né dimostrando di volerle amplificare attraverso il proprio comportamento” (sentenza n. 3981 del 2016).

Giurisprudenza e Casi Reali in tema di diffamazione

Ricollegandosi all’orientamento radicato in materia, la Quinta Sezione della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 4239 del 2022, ha stabilito che l’indirizzo IP non è imprescindibile ai fini della condanna per diffamazione via social, poiché è sufficiente l’individuabilità dell’autore sulla base di criteri logici e massime di esperienza condivise.

Nel caso in esame, il Tribunale territoriale aveva accertato elementi convergenti a carico dell’imputato C.S., quali la provenienza del post incriminato dal suo profilo Facebook, i rapporti non idilliaci tra le parti, il passato comune e gli articoli critici che la persona offesa aveva in precedenza scritto sull’operato del ricorrente come consigliere regionale ed in altre attività correlate, condannandolo a euro 800 di multa, oltre al risarcimento del danno in sede civile, con la sospensione condizionale della pena e la non menzione della condanna nel certificato giudiziale.

La Corte d’Appello di Campobasso ha confermato tale pronuncia.

Contro di essa, C.S. propone ricorso sulla base di due motivi di doglianza, il vizio di motivazione ed il travisamento della prova, in quanto si fonderebbe su mere congetture e non su elementi che attestino la certa riferibilità del post all’imputato, come l’indirizzo IP.

Entrambi i motivi sono stati ritenuti infondati dagli Ermellini.

Si può parlare poi di reato di diffamazione anche quando il materiale di cui si era autorizzata la pubblicazione su un sito web o sui social networks viene divulgato in contesti o per finalità completamente differenti da quelle che avevano fatto scaturire il consenso della vittima.

Nello specifico la Corte ha ritenuto sussistente tale illecito nella divulgazione su un sito internet di immagini fotografiche, ritraenti una persona in atteggiamenti pornografici, in un ambito e per destinatari diversi da quelli in relazione ai quali si era precedentemente prestato il consenso (sentenza n. 19659 del 19/03/2019).

Per ciò che concerne i commenti pubblicati su siti e portali di recensioni, come TripAdvisor, la giurisprudenza ritiene che non si configuri il reato di diffamazione nel caso di avventori insoddisfatti che pubblichino opinioni non lusinghiere, in quanto il gestore di un esercizio pubblico, operando sul mercato, accetta pure il rischio del mancato o scarso gradimento dei suoi servizi (Tribunale di Pistoia, sentenza n. 5665 del 16/12/2015).

 

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