Diritto del Lavoro

Risarcimento Danni per Licenziamento illegittimo

Il licenziamento, a prescindere dalla causa e/o dalla sua legittimità, costituisce un evento traumatico in grado di avere implicazioni negative su molteplici piani: personale, giuridico, sociale, relazionale, psichico.

Se, per di più, si tratta di licenziamento ingiustificato, inefficace o discriminatorio il dipendente può aver diritto al risarcimento del danno subito.

Risarcimento Danni per Licenziamento Illegittimo

risarcimento danni licenziamento illegittimo

In tal direzione si sono mossi i numerosi interventi legislativi in materia lavoro posti a presidio della libertà e dignità dei lavoratori.

La legge n. 300/1970 (Statuto dei lavoratori) – e precisamente l’art. 18 – già nella sua formulazione originaria contemplava una tutela di tipo risarcitorio in caso di licenziamento privo di giusta causa.

A questa si aggiungono le importanti novità introdotte dalla nota Riforma Fornero (L. 28 giugno 2012, n. 92), dal Jobs Act (D. lgs. 23/2015) e, da ultimo, dal Decreto Dignità (D.L. 87/2018) siglato dall’attuale Governo in carica.

Analizziamo in quali casi sussiste il diritto al risarcimento del danno e quali sono i criteri per la determinazione del quantum richiamando, a tal proposito, le più recenti pronunce giurisprudenziali.

Le ipotesi di illegittimità del licenziamento

È illegittimo il licenziamento non sorretto da una delle seguenti motivazioni: giusta causa; giustificato motivo oggettivo; giustificato motivo soggettivo.

Fornire una definizione chiara ed univoca delle suddette motivazioni risulta pressappoco impossibile, potendosi, al più, enucleare una serie di esempi tratti dalla giurisprudenza di merito e di legittimità.

Così, di regola, si ravvisa un giustificato motivo oggettivo nelle accertate situazioni di crisi e/o restrizioni economiche aziendali (ad es: calo delle commesse, diminuzione del ciclo produttivo, diminuzione del fatturato, etc.) che rendono necessaria una riorganizzazione dell’organigramma.

In tal senso i Tribunali di Trapani e di Castrovillari, con sentenze rispettivamente del gennaio 2018 e gennaio 2019, hanno precisato che, in caso di licenziamento motivato da crisi aziendale con la soppressione dell’ufficio presso il quale era impiegato il dipendente, datore di lavoro deve fornire prova dell’oggettiva impossibilità di utilizzare il lavoratore licenziato in mansioni differenti e/o inferiori all’interno della struttura aziendale ovvero allegare e provare il rifiuto dello stesso, il licenziamento intimato è illegittimo sotto il duplice profilo della mancata soppressione effettiva del posto di lavoro e della violazione dell’obbligo di repechage (ripescaggio).

La cd. giusta causa ovvero il giustificato motivo soggettivo ricorrono allorquando vengano contestati al dipendente episodi rilevanti sul piano disciplinare.

La differenza risiede nella gravità del comportamento colposo posto in essere dal lavoratore.

Il legislatore definisce il licenziamento per giustificato motivo soggettivo la rescissione del contratto di lavoro che si verifica per notevole inadempimento degli obblighi contrattuali da parte del prestatore di lavoro.

La giusta causa, invece, è riconducibile ad una condotta posta in essere dal dipendente talmente grave da non consentire la prosecuzione nemmeno temporanea del rapporto durante il periodo di preavviso imponendo la risoluzione immediata del rapporto di lavoro.

Chiarificatrici, a tal proposito, le parole della Corte di Cassazione che nella sentenza n. 3320/2015 precisa che la giusta causa e il giustificato motivo soggettivo di licenziamento costituiscono mere qualificazioni giuridiche di comportamenti ugualmente idonei a legittimare la cessazione del rapporto di lavoro, l’uno con effetto immediato e l’altro con preavviso.

Il Tribunale di Roma ha qualificato come sorretto da giusta causa il licenziamento addebitato ad una educatrice con contratto di lavoro a tempo indeterminato presso un asilo nido per aver lasciato incustodito un gruppo di bambini della sezione a lei affidata per accompagnarne uno al bagno, senza tuttavia avvisare le colleghe e, durante tale lasso di tempo, sia pur breve, uno dei bambini era stato graffiato in pieno viso un altro bambino.

Il giudice di merito osservava che tale comportamento per di più acquistava una maggiore gravità perché valutato insieme ad altri, sia pur non espressamente richiamati nella lettera di licenziamento ma comunque presenti nella storia pregressa del lavoratore ed idonei a compromettere il vincolo fiduciario che era alla base del rapporto di lavoro.

In riforma delle pronunce rese dai giudici di merito, la Suprema Corte di Cassazione, con sentenza dello scorso mese, ha qualificato legittimo perché sorretto da giusta causa il licenziamento senza preavviso di un dipendente dell’Agenzia delle entrate per aver svolto attività di consulenza fiscale in favore di un privato nell’ambito di una vertenza in cui era contrapposto il proprio datore di lavoro.

In tal modo, infatti, il funzionario ha violato gli obblighi contrattuali e legali imposti al pubblico dipendente ed in particolare l’obbligo di fedeltà ed esclusività della prestazione ed il divieto di svolgimento di attività in conflitto di interessi.

In altra occasione, invece, la Corte d’appello di Milano ha ravvisato che sussiste giustificato motivo, e non giusta causa, allorquando il datore, a seguito della commissione di un’infrazione, dapprima trasferisca il lavoratore e solo in seguito lo licenzi. In tal caso dal comportamento del datore si evince che l’inadempimento non è stato tale da menomare in modo irreversibile il rapporto fiduciario, requisito necessario a legittimare la rescissione senza preavviso del rapporto.

A ciò aggiungasi che, in ogni caso, è illegittimo il licenziamento intimato senza l’osservanza delle garanzie procedurali imposte dall’ art. 7 della L. 300/1970 ed in particolare l’obbligo di preventiva contestazione dell’addebito con conseguente possibilità, per il lavoratore, di rendere le proprie giustificazioni e la cui violazione determina l’illegittimità del licenziamento e comporta, con riguardo a lavoratore tutelato ai sensi dell’art. 8 della L. n. 604 del 1966 (sostituito dall’art. 2 della L. n. 108 del 1990), l’obbligo di riassunzione e risarcimento.

Il quantum del risarcimento

Individuate le ipotesi di illegittimità del licenziamento che costituiscono fonte dell’obbligo risarcitorio, occorre soffermarsi sul quantum del risarcimento.

Sul punto il legislatore, col Job Act modificato dal recente Decreto Dignità, statuisce che «nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità».

Deve, però, evidenziarsi, che la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della suddetta norma per violazione degli artt. 4 e 35 Cost. nella parte in cui prestabilisce interamente il quantum del risarcimento spettante al lavoratore in relazione all’unico parametro dell’anzianità di servizio non realizzando, così, un equilibrato componimento degli interessi in gioco: la libertà di organizzazione dell’impresa da un lato e la tutela del lavoratore ingiustamente licenziato dall’altro.

A parere dei giudici costituzionali l’anzianità di servizio, ancorché rilevante, costituisce solo uno dei fattori da cui dipende il pregiudizio prodotto dal licenziamento ingiustificato sicché deve aversi riguardo, altresì, al numero dei dipendenti occupati nella medesima azienda, alle dimensioni dell’impresa, al comportamento e alle condizioni delle parti.

Ebbene, trattasi di una molteplicità di fattori che influiscono sulla determinazione dell’ammontare del risarcimento e devono essere rimessi alla prudente e discrezionale valutazione del giudice chiamato a dirimere la controversia allo scopo offrire un adeguato ristoro garantendo una personalizzazione del concreto pregiudizio subito dal lavoratore.

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