Diritto Civile

Risarcimento del danno per lite temeraria

Lealtà, correttezza, diligenza, buona fede!

Sono questi (solo) alcuni dei doveri che devono ispirare e connotare la condotta processuale della parte in causa e del suo difensore.

Risarcimento del danno per lite temeraria

Indubbiamente agire o resistere in giudizio è esercizio di un diritto costituzionalmente tutelato, ma farlo con mala fede o colpa grave può trasformarsi in un vero e proprio fatto illecito suscettibile di risarcimento.

Così espressamente sancisce l’art. 96 c.p.c. che costituisce la risposta in termini giuridici al sempre più diffuso e pericoloso uso distorto della macchina della giustizia che si traduce in abuso dello strumento processuale.

A tal proposito il legislatore utilizza l’espressione responsabilità (processuale) aggravata o più comunemente responsabilità per cd. lite temeraria ponendo a carico della parte soccombente non soltanto l’onere di sostenere le spese del giudizio, ma altresì l’obbligo di risarcire la controparte dei danni da questa patiti per esser stata ingiustamente coinvolta nel processo.

Quando un comportamento può dirsi connotato da mala fede o colpa grave?

L’interrogativo sorge spontaneo a fronte del silenzio della norma che ha preferito lasciare ai giudici l’arduo compito di elaborare una definizione.

Illuminante, in tal senso, la pronuncia con la quale la Suprema Corte di Cassazione sancisce che il carattere temerario della lite va ravvisato nella coscienza dell’infondatezza della domanda e delle tesi sostenute ovvero nel difetto della normale diligenza per l’acquisizione di detta consapevolezza.

Agire o resistere in giudizio con mala fede o colpa grave, dunque, vuol dire azionare la propria pretesa senza un minimo di avvedutezza o nella consapevolezza del proprio torto ovvero, ancor di più, resistere in giudizio con la coscienza della totale fondatezza della pretesa avversaria.

Nella prassi, la giurisprudenza ha ravvisato i presupposti per la condanna per lite temeraria nel comportamento di chi: intenta una causa giudiziaria adducendo fatti palesemente smentiti dalla documentazione prodotta in corso di causa; propone una impugnazione ad un sentenza sostenendo tesi assai fantasiose oltreché lontane dal diritto vivente e dall’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale esistente in materia; omette di dedurre circostanze fattuali fondamentali ai fini della corretta ricostruzione della vicenda controversa.

Il Tribunale di Roma, ad esempio, decidendo su una opposizione ad una cartella esattoriale per contravvenzione al codice della strada fondata sulla mancata notifica della stessa ha qualificato in mala fede la condotta del ricorrente per aver negato un fatto che sapeva essere vero.

Risultava provato, in corso di causa, che la suddetta cartella esattoriale era stata notificata al luogo di residenza del debitore come da certificato storico di residenza ed attestazione dell’ufficiale giudiziario di avvenuta consegna alla madre che non si contestava essere sua convivente.

Ed ancora, in altra occasione, agli occhi dello stesso Tribunale di Roma è apparso chiaro sintomo della volontà di generare un contenzioso con scopi meramente disturbatori dell’ordinato svolgimento del processo la proposizione di un giudizio basato su allegazioni astratte, ipotetiche, dubitative ed un atto processuale scarno e generico, prive di concreti agganci con la realtà fattuale rappresentata e non corredato da opportuno materiale di prova nonché il mancato deposito degli atti difensivi ovvero la reticenza nel produrre in giudizio, pur su esplicita richiesta, la documentazione in proprio possesso.

Non v’è chi non vede, poi, mala fede processuale nella condotta di chi, ad esempio, a seguito di ingiunzione di pagamento di una somma di denaro, proponga opposizione pur nella totale consapevolezza della debenza della somma pretesa e ciò ai soli fini dilatori. Al solo inaccettabile fine, cioè, di procrastinare la data di effettivo esborso del denaro dovuto.

Resta chiaro che agire in giudizio per far valere una pretesa che, proprio malgrado, si rileva alla fine infondata non costituisce condotta di per sé rimproverabile – risultando, altrimenti, vanificato lo stesso ruolo del processo e della macchina della giustizia. Tuttavia si sente forte e chiara l’esigenza di valutare la complessiva condotta processuale onde evitare un uso abusivo ed anomalo del processo.

I presupposti del risarcimento: il principio della domanda e la prova del danno

Dovrebbe, ormai, esser chiaro che fondamentale – ma non unico – presupposto per l’integrazione della responsabilità aggravata per lite temeraria è l’elemento soggettivo rappresentato dalla mala fede ovvero colpa grave, nel senso sopra precisato, della condotta processuale posta in essere.

Non deve trascurarsi, però, che l’affermazione della responsabilità impone altresì la totale soccombenza in giudizio nonché l’accertamento l’effettiva esistenza dal danno sofferto puntualmente provato, anche nel suo ammontare, dal presunto danneggiato.

In tal senso, in più occasioni, si è ritenuto che, ove dagli elementi introdotti da parte richiedente ovvero all’esito di eventuale attività istruttoria, non risultino elementi obiettivi dai quali desumere la concreta esistenza del danno nulla può essere liquidato.

Diversa è l’ipotesi di notevole difficoltà ovvero impossibilità di fornire la prova del solo ammontare del danno, potendo in tal caso soccorrere la liquidazione equitativa sancita dall’art. 1226 c.c. tenendo conto delle circostanze di fatto emerse.

Deve darsi atto che un diverso orientamento giurisprudenziale, alleggerendo l’onere della prova gravante sul danneggiato, ha sostenuto che la prova del danno sofferto potrebbe presumersi sulla base di nozioni di comune esperienza.

Trattasi di dati non scritti ma ricavabili dalla quotidianità, dall’osservazione, dall’esperienza che inducono a concludere che, nella normalità dei casi, condotte processuale ingiustificatamente dilatorie possono causare danni sia di natura patrimoniale che di natura psicologica che devono essere liquidati.

Così, ad esempio, il Tribunale di Roma ha ben ravvisato che agire in giudizio o la resistere ad una pretesa infondata comporta impiego di tempo inevitabilmente sottratto alle proprie attività lavorative o di svago cagionando così un danno esistenziale.

Basti pensare al tempo impiegato in occasione dei colloqui con il proprio legale nonché per la ricerca di eventuale documentazione utile ed altri supporti istruttori o per la presenza in udienza ecc.

Ed ancora, da non trascurarsi, lo stress provocato dal perdurare di una situazione incerta e indefinita in ragione della durata del processo.

Ad ogni modo il risarcimento è subordinato all’esplicita richiesta della parte lesa così come risulta chiaro dalla lettura dei commi primo e secondo dell’art. 96 c.p.c.

Si immagini di veder ipotecato il proprio immobile o di subire un pignoramento da un presunto creditore che abbia agito imprudentemente al fine di tutelare o realizzare un diritto che si accerti poi essere inesistente.

Anche in tal caso, il danno subito è suscettibile di risarcimento così come sancito dall’art. 96 comma secondo che disciplina l’ipotesi di responsabilità aggravata conseguente all’aver eseguito un provvedimento cautelare o iscritto ipoteca o trascritto una domanda giudiziale o ancora iniziato o compiuto l’esecuzione forzata senza normale prudenza.

Quando, al risarcimento dei danni subiti, si aggiunge la sanzione pecuniaria?

Nei paragrafi precedenti, sono state esaminate le fattispecie di responsabilità per lite temeraria volte ad ottenere una condanna al pagamento di una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno subito previa istanza in tal senso da parte del soggetto leso.

Per completezza deve, in conclusione, aggiungersi che è il nostro legislatore negli ultimi anni ha avvertito la necessità di sanzionare le condotte processuali che integrano un vero e proprio abuso del processo.

A tal proposito, l’art. 96 comma terzo c.p.c. aggiunge che «in ogni caso» e «anche d’ufficio» il giudice può condannare la parte soccombente in giudizio al pagamento di una somma equitativamente determinata che si affianca alla condanna al pagamento delle spese legali ed è, di regola, pari al loro ammontare o al doppio.

Ebbene si, alla natura risarcitoria della condanna prevista dagli artt. 96, commi primo e secondo, si aggiunge la natura sanzionatoria di quella prevista dal comma terzo.

Così, da una parte, al risarcimento dei danni è affidato il compito di restaurare e reintegrare la sfera patrimoniale di colui che ha subito le lesioni, dall’altra parte, l’obbligo di pagamento di una ulteriore somma, svincolato da qualsivoglia richiesta e/o prova, non può che costituire la giusta sanzione per scoraggiare condotte pretestuose e preservare il sistema giudiziario, l’unico che può assicurare effettiva tutela!

Hai trovato utile questo articolo? Dagli un voto:
[Totale: 3 Media: 5]

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *